Nella confusione di notizie che regna sovrana dallo scoppio della guerra, c’è una verità che emerge tra tutte, potenzialmente identificabile come un’ovvietà, per quanto profondamente da riprendere nel suo evolversi e definirsi inesorabile. Si chiama coraggio o, come definito da un articolo dell’11 marzo di Milano Finanza, fegato.
Titolo: Ora per investire ci vuole fegato. Sottotitolo: Per la maggior parte dell’ultimo decennio, mettere i soldi in Borsa non ha richiesto quasi nessun atto di coraggio. Adesso tutto ciò potrebbe cambiare. Che cosa insegna il passato.
Fine della pubblicità (del pezzo ora citato, intendo).
E ora veniamo alla scena del film del 2009 (La rivolta delle ex), che mi è venuta in mente per mettere a tema la sfumatura di cui di questi tempi è necessario parlare, e che l’articolo mi ha sollecitato, in qualche modo costringendomi a ripercorrere, come chiunque abbia tempo e voglia di leggerlo, quei fatti o esempi del passato che, lo sappiamo ma occorre ricordarcene, insegnerebbero o confermerebbero come sia importante, in momenti di turbolenza, assumere comportamenti corretti rispetto all’investimento.
Strano modo di raffreddare il tema, eh? Un po’ sì.
Ma se ci pensiamo, è questo il punto. Sempre di più. Perché quando l’investitore intraprende il viaggio – chiamiamolo così – che lo dovrebbe portare al fenomeno del rendimento, tende sempre ad assumere un comportamento che ritiene separato, quasi asettico, rispetto a tutto il resto della sua umanità.
E così cosa succede?
Succede che entri in consulenza, quando decide di parlarne con qualcuno, vestendo un abito che lo identifica in tre assunzioni di principio, quasi tre dichiarazioni imprescindibili cui il consulente cui si affida dovrà tenere fede per sempre. Sono notissime, quindi scusate se le rammento ma mi serve per cercare di raffigurarci la figura dell’investitore nel suo approccio iniziale.
- Voglio guadagnare (e spesso dice anche in che percentuale);
- Non voglio perdere (e qui scusate ma non provate a dirmi che sia banale questo dopo aver citato il punto 1). Perché un momento dopo che l’investitore ha detto che vuole guadagnare, magari il 5%, senza neanche sapere cosa comporti, fa seguire il «non voglio perdere»;
- Tutto deve accadere nel più breve tempo possibile. Un quasi assioma degli ultimi tempi, sicuramente almeno dallo scoppio della pandemia, a motivo delle inspiegabili accelerazioni di Borsa in assenza di cause reali.
Confezionato o impostato così, l’investitore a questo punto pensa di aver firmato una quasi assicurazione con il suo consulente, consegnandogli il rischio che lui stesso ritiene non essere rimasto, e quindi di non doverlo correre, in quelle scelte da lui medesimo fatte, per quanto condivise con l’esperto (chiamiamoci così).
Qui, attenzione, la parola “consegna” non è scelta a caso. Perché, invece, quando si investe è proprio questo che non accade. Mentre è vero che firmando un contratto di assicurazione, per fare un confronto, il sottoscrittore consegna, o meglio sposta il rischio sulla compagnia che se lo assume, ciò che accade invece nell’investimento è che il rischio non si possa affatto consegnare. Piuttosto il rischio si deve… correre. Personalmente.
E qui, ogni volta che succede un evento che di nuovo scatena la Borsa, come ahimè abbiamo visto senza pause accettabili (pandemia, e poi guerra, che dire? Non c’è un attimo di tregua), la stampa è veramente inondata di conferme di quello che sembrerebbe essere un meccanismo inesorabile per l’investitore. Che di fronte alla caduta dei valori, si spaventa, ha paura, è sopraffatto dalle emozioni.
Ma come? Si chiede. Non avevo firmato un contratto, partendo dalle mie tre regole (vedi sopra) che avevo fatto presenti al mio consulente, regole che, quelle si, mi avrebbero permesso di fare la mia vita non pensando a quella parte di me proprio perché consegnata a un consulente?
Insomma, è come se il rischio dell’investitore, perché è questo che occorre tematizzare invece che l’obsoleto rischio dell’investimento, andasse recuperato alla radice come la verità nascosta, per quanto scontata, in tutto quanto sta accadendo.
I fatti della Borsa degli ultimi 20 giorni lo hanno reso chiaro: il tema ricorrente, più che quello della paura o della tentazione di pensare di non aver fatto le scelte corrette, è stato quello della tentazione di starci in questo rischio, correndolo per certi acquisti, accettandolo per certe strade suggerite dalla realtà, piuttosto che rimanendone fuori.
Non sto dicendo che sia scomparsa l’emozione dominante che da sempre tenta chi ha investito, e gli suggerisce di uscire prima che sia troppo tardi; sto dicendo che la storia di questi giorni difficili in cui la Borsa non solo scende, ma sale (!), e non sale perché la soluzione ci sia all’orizzonte, ma perché alla fine non si smette di comprare proprio in questa situazione, sta facendo vedere come l’investitore stia accettando di assumersi il rischio di starci in questo mercato, in tutte le sue controverse e tanto poco governabili manifestazioni.
Quasi avesse imparato a preferire, o meglio reputato irrinunciabile, il dolore dell’accettazione del rischio, della vera assunzione del rischio, al rimpianto conseguente al non averlo voluto correre, come nella magistrale scena del film il protagonista cerca di comunicare alla fanciulla che ha di fronte per consigliarla al meglio nelle sue tristi vicissitudini d’amore: «Qualunque dolore proverai non sarà mai neanche comparabile al rimpianto di aver scelto di allontanarsi dall’amore. Il dolore batte il rimpianto senza neanche bisogno di giocare la partita».
Così, nella scena, le parole del favoloso Connor toccano sul vivo la questione che, mutando il piano, ci interessa da vicino: stare nelle vicissitudini di Borsa, comprare aziende in saldo, approfittare di prezzi (da non confondere con ondate di comunicazione che tenderebbero come sempre a far fare acquisti su livelli già troppo alti!), sarebbero comportamenti che l’investitore avrebbe finalmente accettato di vivere, assumendosene il vero rischio, preferendo questa vita di Borsa al rimpianto di non averci neppure pensato.
Un mio cliente ha ricomprato ancora il settore tecnologico e mi ha detto: io insisto, ci credo, come posso non farlo a certi prezzi? Lui che in pandemia aveva venduto tutto. È un amore rinato il suo? Beh, non esageriamo. Senz’altro, in alcuni casi, il rischio dell’investimento è finalmente ritornato prepotentemente ad essere il rischio dell’investitore. Assunto. Corso. Accettato. Personalmente.
Come di fatto è sempre stato, ma anche come l’investitore ha imparato a ri-vedere solo grazie alle vicissitudini del passato più recente, prepotentemente ri-provocate nei fatti purtroppo ancora in corso. Che gli hanno fatto ri-vivere e ri-vedere le famose lezioni del passato, quelle citate dall’articolo sopra, quelle che ci si era abituati ad attribuire a tempi che si pensava e si sperava non sarebbero mai più tornati. Quelle lezioni che avevano strutturalmente fatto sì che l’investitore prendesse coraggio, e comprasse esattamente quelle azioni che istintivamente non sarebbero state, per il valore che avevano perso in quei tempi lontanissimi, la prima opzione da preferire.
Quelle lezioni che, ora, sono tornate attualissime, nel riproporsi di quei tempi di guerra, e nel riproporsi esattamente di quello stesso coraggio; coraggio di acquisto, come lo identifica il pezzo, impersonato da un investitore che noi stessi consulenti siamo costretti a riconoscere, nella sua rinnovata o meglio ritrovata autentica capacità di rischiare. Attivamente. In prima persona.
Perché l’alternativa sarebbe il rimpianto di non averne saputo approfittare
E su questo sembra che l’investitore ultimamente quasi non abbia bisogno di farselo dire neppure dal suo consulente, come invece accade in amore (lo rende chiaro la scena del film…), perché lì, diciamocelo, continua a vincere la paura di accettare di vivere il rischio personalmente. Ma questa è davvero un’altra storia…
Alla prossima!