La vita è straordinariamente imperfetta
E proprio in questa sua caratteristica primordiale si rivela nella sua altrettanto straordinaria perfezione. Chi pensa che la perfezione stia nell’assenza dell’errore, nella coerenza, nella mancanza del difetto, si scontra abitualmente con l’esperienza del contrario.
Spesso infatti nella vita si ritrova la riconoscenza della grandezza, della realizzazione, ogni volta che le cose non quadrano perfettamente.
La bellezza non è solo perfezione. Non sono astratta, ma estremamente concreta, perché parlo di me e voglio farlo proprio entrando nel casus belli legato al nome di Elisabetta Franchi. Eh sì, poverina, perché davvero le sono andati tutti contro, nel pensare male di lei, nell’alludere alla sua mancanza di tatto e di considerazione della donna. In fondo paragonabile all’altrettanto famoso sindaco di Trieste che, riguardo al caso delle presunte molestie degli alpini (la quotidianità spesso si accanisce sulle stesse vicende quasi a suggerire di mettere a tema la vera questione) nelle ultime ore si è espresso con un certo non eloquio (sono carina) a riguardo del gentil sesso, sul quale secondo lui sarebbe concesso dire di tutto, anche mimando le forme fisiche, come il gentiluomo ha fatto molto carinamente.
Anch’io sono stata una manager
Ma parlando di noi davvero, nel profondo, nel pensare alla donna come qualcuno che ha da dire o da fare, che è un chi invece che un cosa, si riesce a entrare nella questione al fondo di tutto.
Che non consiste, ritengo, nel non riconoscere le ragioni di Elisabetta Franchi (quelle del sindaco davvero non riesco a metterle a tema perché forse avrebbe solo da imparare l’educazione), ma piuttosto nel riconoscere dove nasca l’essere donna, di ciascuna di noi donne al di là delle facili categorizzazioni: lavoratrici, dipendenti e imprenditrici, sotto o sopra gli “anta”. Per farlo mi lascio andare a una confidenza, raccontando un pezzo della mia storia professionale e personale.
Ho scritto sui social e sui giornali, decidendo quindi di condividere con i media la mia persona, facendo questo blog e pubblicando il mio pensiero, che sono siciliana e che ho assolutamente superato i primi “anta”. Entro così appieno nel “palazzo di Elisabetta”.
Non ho ancora detto però una cosa importante, che è successa nella mia storia imperfetta, molto imperfetta, e che è in contrasto con quella fotografia di donna in carriera che mi si riconosce di continuo guardandomi dall’esterno.
Anche io sono stata un manager, e un manager di successo, venuta su dagli scatoloni (come si suol dire), perché gli scatoloni li facevo davvero alla mia prima esperienza di impiegata.
Poi da lì l’inizio di una carriera costante, che mi ha portato a gestire un numero di risorse sempre più ampio, per lo più donne. Peccato, o per fortuna direi, che ci siano stati due episodi che hanno per me significato uno scandalo nel senso etimologico della parola, ovvero un inciampo vero e proprio.
Le donne che non ho saputo guardare
Primo episodio. Lavoravo per una azienda inglese, ed ero manager di un team di quattro meravigliose fanciulle, e lo dico oggi come se guardassi un quadro da lontano, perché allora ero talmente accecata dalla quotidianità dal non riuscire a pensare a loro come persone, come donne.
Obiettivi, risultati, e vi garantisco che li portavo, e mi portavano sul palmo della mano come fossi un trofeo, sempre sulla cresta dell’onda, sempre la prima. Perché dovevo esserlo. Sempre.
Peccato che la solitudine dei numeri primi sia sempre dietro l’angolo e così, in un momento, senza che me ne accorgessi, ho perso tutte le mie ragazze, che in una stessa giornata (davvero) mi hanno abbandonata. I giorni dell’abbandono sono stati tremendi: giorni di tristezza accompagnati solo dalle parole del mio manager di allora (che ancora mi risuonano). Io mi difendevo (cara Elisabetta siamo tutte così quando abbiamo successo, abbiamo le nostre ragioni ma…): «No, hai sbagliato tu». E così ho dovuto ricominciare da capo. Davvero da capo.
Da allora la mia esperienza è andata avanti come non mai, sempre oltre. Ho ricostruito la squadra giorno dopo giorno, e poi è arrivata l’agognata promozione. Successo pieno. Ho assunto un incarico di prestigio che mi ha portato a fondare una linea di servizio da zero. Il sogno di una vita.
La vita perfetta. Quella che si sogna da bambina. Sei brava, e per questo ti diamo in mano la costruzione di un sogno. Non sono Elisabetta Franchi, ma le sue ragioni in quel momento le vivevo. Ero davvero, come si dice, rampante e raggiante. Non avevo dimenticato però quello che mi era successo, l’avevo solo messo da parte come si fa con le cose che danno fastidio. E così andavo avanti, correndo dietro alle mille incombenze, alle mille responsabilità e alla passione che avevo, e vi garantisco che si vedeva allora negli occhi delle persone che gestivo, reclutandole dapprincipio e formandole per arrivare ai risultati richiesti.
Erano i miei ragazzi, perché erano donne (per lo più) e uomini che formavo io stessa alla professione, e ne andavo orgogliosa.
Peccato che anche qui, di nuovo, quella vita perfetta abbia mostrato la sua imperfezione, il suo gap, o meglio una voce fino ad allora inascoltata, di cui ho dovuto mio malgrado accorgermi, una volta ingaggiata dalla banca che poi mi ha coinvolta, trasformandomi nella consulente che sono oggi.
Perché quando ho lasciato la favolosa squadra, perfetta come la vedevo io, sono venuta a sapere che una delle responsabili che coordinavo non l’avevo mai “vista”, non l’avevo “guardata dentro”, non mi ero mai accorta del dolore che portava, del dramma che viveva e che l’aveva condotta all’esplosione di una vicenda familiare senza soluzione. Era sempre sorridente, sempre disposta a fare tutto per me pur di essere apprezzata e valorizzata come io sapevo fare.
Desiderava ardentemente essere una delle mie preferite. E io, donna in carriera e manager di successo, ero appassionata (come sono oggi) a quello che facevo, senz’altro; ma non ero stata in grado di guardare negli occhi questa donna. Guardarla veramente. Lei che si sacrificava per me, per non tradire mai le mie aspettative. «Ciao Marianna!», mi salutava ogni volta che la incontravo per i nostri meeting sui risultati.
E io le ripetevo la frase consueta, la solita che si utilizza negli one to one: «Come stai cara?» E lei sempre «Tutto bene!». Così mi diceva sempre, e io non andavo oltre, non ascoltavo, non ero capace di guardarla veramente. Personalmente. Non ero stata veramente un manager, ancora una volta. Come dico io.
Non sono mai più stata come allora
Il dolore provocato da queste due esperienze rappresenta oggi il fondamento più vero della mia professione. Non barattabile con nessuna competenza.
Non sono mai più stata come allora. È la vera competenza che penso di aver compreso, e che negli anni successivi mi ha portato a essere sì – come mi è stato riconosciuto più volte – una manager di banca apprezzata, seguita, pensata e rimpianta (come mi viene detto spesso dalle persone con cui ho avuto il piacere di lavorare).
E oggi, che sono libera professionista, tengo ancora nel cuore come il più grande regalo, sebbene portato da due esperienze non proprio lusinghiere, quello di aver vissuto una vita da manager imperfetta ma proprio per questo, penso, incredibilmente perfetta e piena. Perché personale, ricca di quello che sono stata, e che oggi ho il desidero di comunicare ai clienti con cui mi relaziono. Senza minor successo, per quanto mi viene detto tutti i giorni.
Questa è la vita, professionale e personale, che auguro di scoprire a Elisabetta Franchi, a cui magari torneranno in mente i volti delle donne con cui avrà avuto a che fare nel passato o nel presente. Quelle che fanno e faranno sempre la sostanza della sua persona, se vorrà ascoltarle, a prescindere dagli “anta”, che in fondo, sono solo un dettaglio della bella vita imperfetta, sempre imperfetta e perciò, forse, straordinariamente perfetta.
Alla prossima!