Zona Franca oggi incontra Daniele Diotti, Senior Sales Executive di Franklin Templeton, società che nell’agosto 2020 ha concluso l’acquisizione di Legg Mason e delle società di gestione degli investimenti sue affiliate. «Siamo il sesto asset manager indipendente più grande al mondo», sottolinea Diotti, «con masse gestite pari a circa 1,5 trilioni di dollari al 31 gennaio 2021».
Il tema di oggi è mercati “diversamente emergenti”. Ho utilizzato la terminologia del blog non a caso: quando anni fa si parlava dei mercati emergenti, magari con noti acronimi che non cito perché vorrei lo facessi tu, si sapeva quali erano e perché si dovessero chiamare così. Oggi molto è cambiato: facciamo chiarezza su quali sono i mercati veramente emergenti?
Sono passati esattamente vent’anni da quando l’economista inglese Jim O’Neil coniò l’acronimo BRIC ad indicare Brasile, Russia, India e Cina (e qualcuno aggiungeva anche la S per il Sudafrica) per poi arrivare ai MINT (Messico, Indonesia, Nigeria e Turchia), nel 2014. Due anni dopo già si parlava di TIKS, ovvero Taiwan, India, Cina e Corea del Sud, a indicare i paesi asiatici emergenti ad alto sviluppo tecnologico che stavano surclassando, complici le crisi interne, i “vecchi” BRICS.
Il termine “emergente”, in materia economico-finanziaria, fa riferimento a quelle economie non ancora pienamente sviluppate in possesso però di un grande potenziale di crescita. La Banca Mondiale ha fissato dei chiari livelli di reddito pro-capite e di sviluppo umano, al di sotto dei quali il Paese è ritenuto tale.
Se ci basiamo quindi sulle indicazioni dalla Banca Mondiale, i Paesi che ho nominato sono “tecnicamente” da ritenersi ancora emergenti.
È ancora corretto correlare l’aspetto di emergente a rischioso, ad alto rendimento e… adatto solo ad alcuni profili di clienti? O il mondo è cambiato anche da questo punto di vista?
Penso che, nell’immaginario collettivo, sia ancora presente e ben radicata questa correlazione, e alcuni aspetti socio-politici probabilmente contribuiscono ad alimentare questo punto di vista. La Cina è pur sempre uno stato socialista e l’India, pur essendo la settima più grande economia al mondo, soffre ancora di alti livelli di povertà e analfabetismo, oltre ad avere un sistema sociale basato sulle caste.
Con la “crisi delle tigri asiatiche” del 1997, Tailandia, Malesia, Indonesia e Corea del Sud furono oggetto di un attacco speculativo sulle loro valute che trovò terreno fertile principalmente a causa del settore finanziario di questi Paesi, deregolamentato, fragile e con scarse riserve, tanto da non riuscire a reggerne l’urto. Il resto è storia, se consideriamo la crisi economica a livello mondiale, acuita anche dalla nascente “globalizzazione” che ha provocato una reazione a catena.
Se guardiamo invece a casi più recenti – il rallentamento dell’economia cinese del 2016 – le ripercussioni sull’economia sono state minori, non hanno generato una crisi economica mondiale, hanno sicuramente fatto più male alle Borse che alle varie economie e questo grazie a quello che noi definiamo “il nuovo panorama dei Mercati Emergenti”.
Che cosa si intende con questa espressione e su quali elementi si basa?
Essenzialmente su tre cardini. Innanzitutto, una maggiore ortodossia economico-finanziaria: le riforme politico-finanziarie apportate nel tempo contribuiscono a una maggior resilienza durante i periodi di stress. Parliamo di Paesi che oggi, rispetto ai cosiddetti Sviluppati, presentano livelli di debito pubblico largamente inferiori, debito delle famiglie basso, riserve valutarie significativamente incrementate, indebitamento in valute estere (Dollaro Usa in primis) molto basso.
In secondo luogo, economie molto diversificate, con la tecnologia e i consumi a fare da driver di crescita “secolare”. Alcuni dati a supporto: oltre il 50% dei brevetti a livello mondiale arriva dagli EM; il peso della Old Economy negli Indici dei Paesi Emergenti oggi è al 17% (dal 45% del 2007); di contro, i temi della “New Economy” hanno superato il 50% [1].
Terzo, le aziende degli EM hanno “superato” i vecchi modelli di business grazie all’innovazione ed alla tecnologia.
Possiamo quindi affermare che ci troviamo di fronte a Paesi completamente differenti da quelli di vent’anni fa, che oggi sono alla portata di tutti. Importante sicuramente sarà calcolare il giusto “peso” da assegnare a questa asset class nei portafogli dei clienti, come ben sanno fare i consulenti, tenendo in considerazione la propensione al rischio e l’arco temporale dell’investimento proprio di ogni cliente.
Continuo su questo filone, cercando di togliere un po’ di polvere da quello che si legge sempre. Qual è l’asset più corretto per investire nei mercati emergenti? Da consulente finanziario io ti risponderei l’azionario: provi a convincermi che anche le obbligazioni o certi strumenti “flessibili” possano fare la differenza su questi mercati?
L’azionario è adatto per i portafogli di clienti con un’elevata tolleranza al rischio e un obiettivo temporale d’investimento più lungo; un approccio che consente di diluire la possibile volatilità dell’azionario emergente è il sempreverde piano di accumulo (PAC).
L’obbligazionario emergente è diventato interessante per l’investitore italiano, considerando che oggi oltre 15 trilioni di obbligazioni [2] dei mercati sviluppati offrono rendimento negativo: ecco che le “cedole” oggi si possono ottenere spostando lo sguardo sull’obbligazionario emergente.
Ma il rendimento non è l’unica motivazione. I bond emergenti servono anche per diversificare (in questo caso a livello geografico), evitando il rischio che si corre utilizzando un unico strumento, mettendo tutte le uova in un unico paniere, per così dire.
In ottica di gestione rischio può essere interessante prendere in considerazione l’obbligazionario emergente in valuta forte (hard currency). Riguardo ai veicoli, sempre in termini di diversificazione l’offerta è ampia e va definita in ottica di costruzione del portafoglio del cliente: fondi azionari o obbligazionari, bilanciati o ETF.
Se dovessi presentare il paese emergente doc, parleresti ancora della Cina? O di un altro paese? Sbilanciati.
Il 15 novembre 2020, Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e i 10 paesi membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) hanno sottoscritto il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) creando la più ampia zona di libero scambio mondiale, che interessa quasi il 30% della popolazione mondiale e rappresenta circa il 30% del PIL globale.
La Cina guida la marcia degli Emergenti, ma è importante diversificare e quindi considerare per esempio la Corea del Sud, che presenta un approccio globalista al commercio. Invece di ripiegarsi su se stesso, il Paese ha aperto il proprio mercato al business internazionale grazie ad accordi bilaterali per il libero scambio (dal ’97 ne ha sottoscritti 16 con 58 paesi)[3]. Negli anni Sessanta, era tra i Paesi più poveri al mondo per PIL pro capite, ma già nel 2004 il suo PIL aveva superato un trilione di dollari e oggi è superiore a 2 trilioni di dollari statunitensi [4].
Il Paese è attualmente al quinto posto mondiale per esportazioni, con un movimento di merci per un valore di 577 miliardi di dollari [5], che include semiconduttori, elettronica, navi, tessili, automobili e ricambi, acciaio e molto altro.
Ed eccoci al passo finale. Se dovessi consigliare a un cliente di avvicinarsi ai mercati emergenti, da dove lo faresti partire?
Più che sul “dove” mi concentrerei sul “come”: chiarito che dobbiamo diversificare a tutti i livelli (regionale, settoriale), abbiamo nel Piano di Accumulo (PAC) un potente strumento che ci permette di approfittare anche dei momenti di volatilità.