In questi giorni di festa, ma soprattutto di attesa, di condivisione, di vicinanza (anche se parziale) e, non possiamo che ammetterlo, di desiderio di affetti, mi è capitato di leggere una lettera pubblicata da Bluerating e scritta da un collega consulente che ha ricorso proprio a questo mezzo, internet (come ormai facciamo tutti sempre più spesso su sempre più aspetti, forse troppi, della nostra vita), per esprimere un’emozione tutt’altro che in linea con il periodo. Ecco le sue parole:
Io credo piuttosto che buona parte della frustrazione che talvolta vivono i colleghi (e mi ci metto dentro) derivi dal rapporto con taluni clienti. Il fatto è che non si può dire, perché il cliente è sacro. La verità è che spesso, perdonatemi il termine, i clienti andrebbero mandati a quel paese.
Parole gravi e, credetemi, pur essendo – ripeto – un periodo caratterizzato per lo più dalla manifestazione di sentimenti che tutto hanno meno che la negatività, sarei quasi tentata di ringraziare il mio collega per quanto ha espresso come sfogo, anche se penso che il suo epilogo non sia quello giusto. Il collega infatti ha scritto la lettera come una sorta di commiato dalla professione…
Di solito, quando si leggono queste reazioni di impatto, sul banco degli imputati ci sono le banche mandanti (e direi che le parole cui ricorre il collega sono spesso quasi le stesse…). Queste, se nella veste di datrici di lavoro nei confronti di colleghi dipendenti sono perennemente accusate di essere come focolari imperturbabili, diventano capaci di accaparrarsi tutto il tempo della giornata dei loro “addetti ai lavori” e li ricambiano con non più che sassolini (scusatemi, qui ripeto una frase di un mio ex collega bancario che ho sentito per gli auguri e, guai a me, per cui ho assunto quasi il ruolo di psicoterapeuta), quando si trasformano in mandanti (nel caso della scelta della libera professione) perdono un po’ di smalto, anche se possono rimanere una vera e propria ossessione pericolosa. Incapaci di rubare il tempo, ma non per questo inabili a tenere desta l’attenzione del consulente finanziario su quali siano i prodotti da privilegiare nel portafoglio del cliente.
Tuttavia stupisce che, nella lettera del collega, sul banco degli imputati, come vera e conclamata causa di un suo ammutinamento alla professione, per non chiamarlo abbandono, sia nientemeno che il centro delle nostre attenzioni: il cliente. Sì, il cliente!
Proprio colui per il quale chi sceglie di fare la mia professione decide di lasciare tutto.
Badate bene, non è affatto drastica né iperbolica la mia affermazione. Questa, in realtà, andrebbe scritta sui muri dal consulente finanziario, forse per smorzare un po’ i toni della sua a volte comprensibile frustrazione: «Ho lasciato tutto per te!». Perché non c’è verità più solenne: chi decide di fare il consulente finanziario, come io ho fatto oltre cinque anni fa, ricomincia da zero. Zero vuol dire zero. Pugno nello stomaco. E a nulla valgono le rassicurazioni che ci si dà vicendevolmente tra colleghi, del tipo: vedrai andrà tutto bene! È vero che si ha in qualche modo un portafoglio clienti. Ma se si lascia, bisogna ri-prendere in mano o meglio per mano ogni cliente, per presentare Il nuovo biglietto da visita. Sì, quasi fosse una sorta di esorcismo, lasciatemelo dire, quasi i clienti dovessero far uscire da te il vecchio prototipo per riconoscere il nuovo. Ed è accaduto anche a me così, quasi avessi nuovamente dovuto presentarmi così a ognuno dei miei clienti “vecchi”: «Buongiorno, mi chiamo Maria Anna Pinturo e da oggi lavoro per…» quasi chiedendo alla fine: «Si ricorda di me?».
Ma se si è fatta una scelta così difficile, così impegnativa su tutti i fronti, come è possibile che si arrivi al punto di dire basta? Soprattutto per colpa di chi in fondo ci ha spronato (nelle motivazioni, intendo) a fare il grande passo?
Forse, in questo tempo di bilanci, occorre fermarsi un attimo a ripensare a cosa ci sia in gioco nel rapporto con il cliente.
Pensiamoci: il cliente va gestito. Risposta esatta. Il cliente (non lo diciamo più da tempo per fortuna) ha sempre ragione. Risposta sbagliata. Il cliente è una persona. Vero! Ma eccoci arrivati al punto. Il rischio che si corre è proprio quello di non vedere nel cliente una persona. E quindi nel non rapportarsi personalmente, pensando solo di doverlo gestire, punto e basta. Alt, vorrei subito fugare la possibilità che con quel “personalmente” io stia alludendo al bere il caffè insieme, invitare al ristorante ogni tanto, fare gli auguri di Natale. Tutto giusto, ma non è tutto qui. Non sto parlando di instaurare una complicità, o una sorta di adulazione. Perché è proprio riducendo l’aspetto personale a questi dettagli, spesso forzati e a cui non tutti coloro che svolgono la mia professione sono predisposti, è proprio da qui che, inevitabilmente, quando la misura dovesse essere colma, si può arrivare alla reazione del collega consulente da cui ho preso spunto. Siamo al limite, certo, ma penso onestamente che questa prospettiva sia possibile. È possibile che si arrivi a mandare a quel paese il cliente quando questi, nei suoi modi, non dovesse essere coerente con quell’aspettativa creatasi per la serie dei “comportamenti ad hoc” creati per lui, messi in atto per lui. Che ingrato! Ma come è possibile che si comporti così! Ma io non sono il suo schiavo! Sono quasi queste le parole che stanno tra le righe della lettera citata.
Ebbene, quello che mi sento di dire, caro collega, è che tu potresti avere ragione a non farcela più, ma solo se la relazione con i tuoi clienti non è stata davvero personale. Mi viene da pensare, caro collega – e lo dico con profonda comprensione di quello che esprimi – che, forse, non è emerso come sia centrale considerare i clienti innanzitutto come persone, e proprio per questo, ammettere il difetto, il conflitto, e perché no?, la riconciliazione. Però si tende, invece, a pensare che non si debba fare. Eh no, perché poi il cliente ci vedrebbe poco professionali. Quando invece io rimango sempre più convinta che la professionalità dipenda dall’essere assolutamente personali. L’ho compreso anche a mie spese, perché laddove sono stata assolutamente personale con il mio cliente, solo lì, pur rischiando (nel senso di mettere in gioco la mia persona), lui ha colto la vera differenza, nel senso che ha saputo riconoscere chi sono veramente, prima ancora di essere un consulente finanziario.
Penso di averlo fatto capire, poco tempo fa, a un mio cliente che ha cercato di fare quello che non trovo personale nella relazione: mi ha presentato una sua disdetta rispetto a una promessa come fosse normale, accettabile e quasi gradevole, quasi noi consulenti dovessimo digerire con il sorriso tutto, davvero tutto. Ma io gli ho fatto capire che non funziona così, in un rapporto vero. E lui se ne è accorto, non perché io l’abbia mandato a quel paese (davvero, vi garantisco che non l’ho fatto neppure dentro di me), ma piuttosto perché quello che gli ho trasmesso è stata la mia delusione, a titolo personale, rispetto alla quale non esistono compensazioni ma solo possibili riconciliazioni, nel tempo.
Quello che allora vorrei chiedere al collega, o ex collega consulente, è se non pensa che la stessa questione lo aspetti al varco altrove, cosa cioè valga la pena vivere nella relazione con i clienti, in qualsiasi settore si incontrino. Dopo tutto, avrei da domandargli: esiste forse un lavoro senza rapporto con i clienti, in qualunque forma? Io non lo conosco… e voi?
Alla prossima!