E’ dello scorso 7 maggio un post pubblicato dalla piattaforma orientata all’informazione dei giovani Will Media.
Titolo shock: Dimmi che abbiamo un problema con la finanza senza dirmi che abbiamo un problema con la finanza.
Sembra uno scioglilingua ma, letto lentamente, rivela più di quello che comunica perché ci porta lontano nella riflessione.
Il caso citato è quello della società Hometown International, titolare di un’unica attività identificata in un curioso ristorantino del New Jersey, very home style, come descritto nel post.
Dove sta tutta la notizia?
In quella che pare proprio essere un’impossibile equazione: a fronte di flussi che porterebbero un fatturato di poco più di 30.000 dollari negli ultimi due anni grazie ai panini preparati nell’atmosfera informale e amichevole del grazioso posticino, la sopra nominata società vanterebbe una valutazione di oltre 100 milioni di dollari.
Che dire, complimenti al suo CEO, già insegnante di Wrestling in una scuola locale…
C’è di che alzare il livello di attenzione leggendo il post, e anche quanto se ne è detto nello scambio susseguitosi a riguardo, per esempio su Bloomberg.
O meglio. C’è di che preoccuparsi, e condivido, che nella finanza venutasi a creare e consolidantesi di questi tempi il valore espresso dalle quotazioni debba essere approfondito per identificarne almeno una qualsivoglia coerenza con i bene amati e da sempre tradizionali flussi. Per prendere le note corrette decisioni di investimento.
E qui la conseguenza mentale è immediata. Si chiama bolla, e presto scoppierà.
Come dire, il caso del ristorantino del New Jersey metterebbe in guardia, sarebbe insomma un vero caveat dissuasivo per gli investitori, quelli magari affascinati dal ridondante frastuono attorno alle valutazioni della proprietà, ma ignari del fato scritto nei flussi quasi insignificanti a fondamento del suo fantomatico risultato.
E quando non si arriva a parlare di bolla, perché si è già arrivati all’emotività degli eventi estremi, all’origine di un vero e proprio blocco dell’investitore nell’approccio a qualsiasi investimento, si parla di rischio. Quello sì rimane sulla bocca di tutti. E qui si ferma davvero tutto…
Perché il caso-scandalo del ristorantino e della sua proprietà in fondo non è che l’immagine di una tendenza che, soprattutto negli ultimi tempi, ha preso sempre più spazio nella considerazione della finanza, che essa sia in ogni caso rischio in un’equazione unica e assoluta con perdita. Punto e basta.
Ma c’è un ma.
Se il caso del possibile “problema con la finanza” del ristorantino è non solo legittimo, ma anche coerente con una vera ipotesi di bolla (e quindi di un rischio effettivo nel seguire quell’attività), nell’aderire alla sua eventuale offerta sul mercato, questo non può e non deve essere il mood prevalente che attanaglia l’investitore e che ahimé lo porta a prendere la fatidica decisione, lo sappiamo bene, di tenere i soldi sul conto corrente.
Eppure questo è proprio quello che capita, e che si è ulteriormente aggravato nel suo peso a causa del mutamento della finanza seguito al Covid e all’inerpicarsi di grandiosi picchi nelle valutazioni dei titoli a fronte di una pur sempre minima consapevolezza dei risultati celati dietro ad esse.
Anche se – nota bene – succede che la scelta di tenere i soldi sul conto oggi sia diventata la sposa promessa, la nuova sposa promessa niente di meno che del fantomatico rischio.
«Cosa rischia chi ha troppi risparmi fermi in banca, come proteggere il proprio gruzzolo?»
E’ questo il titolo dell’articolo uscito su Finanza.com lo scorso 5 maggio.
Che strano eh?
La parola rischio qui riguarda i risparmi depositati sui conti correnti. E il tema si fa da subito negativo. Si chiama perdita. Anche qui. Perdita di capitale. Poco, molto… non importa. Chi è abituato a tenere i soldi sul conto non tollera di perdere neppure un euro, quasi come chi investe in un portafoglio. Magari lì un euro di perdita si tollera, ma quando si inizia a vedere una percentuale di flessione, la musica è la stessa.
Cosa c’è al fondo?
Una identica miopia: orizzonte temporale assente.
Non siete d’accordo solo apparentemente perché pensate che chi tiene i soldi sul conto di fatto abbia un orizzonte temporale diverso da chi, vedendo perdere il suo portafoglio, se ne dimentica totalmente quasi misconoscendone il significato e ordina di vendere: via il dente via il dolore!
Invece, guardando più da vicino tutti e due i tipi di investitori (perché al fondo anche chi tiene i soldi sul conto investe… a tassi negativi) peccano alla stessa maniera, e oserei dire quasi egualmente. Soprattutto di questi tempi.
Perché chi tiene i soldi sul conto vive alla giornata, accetta di vivere alla giornata. Se avesse il minimo orizzonte temporale capirebbe che i suoi soldi non stanno creando valore, anzi lo stanno perdendo. Fermi. E che quindi la mossa da fare sarebbe di dare a questi soldi un minimo movimento.
Non diversamente da chi, d’altra parte, investe ma scalpita per vedere risultati e non tollera il difetto “momentaneo“ delle quotazioni e quindi decide di vendere, dimenticandosi dell’originario orizzonte temporale condiviso nelle premesse di partenza elaborate col suo consulente
Di fatto, paradossalmente, si tratta di due investitori identici. Ed entrambi, di fatto, correlano la parola rischio a perdita. Non c’è il minimo dubbio.
Certo è che le reazioni delle banche non si presentano come la soluzione ottimale. Meglio sarebbe prevenire invece che correggere, perché la risposta delle banche di mettere in guardia il cliente dal tenere i soldi sul conto o addirittura di chiudergli quel rapporto non sarà che un ennesimo passo verso la perplessità del cliente nel decidere se investire.
È noto che se la banca prende posizioni lo fa per i suoi interessi, e guarda caso qui sono fin troppo evidenti. Così il rischio per questi clienti rimarrà un termine negativo, lontanissimo dall’assomigliare ad un’opportunità.
Esattamente come per l’investitore, oggi sempre più insofferente e attaccato al day by day, la sensazione di non guadagnare nulla lo porta a essere perplesso sulle scelte del suo consulente, quasi fossero spinte dagli interessi di costui, piuttosto che dai propri.
Al centro sempre la stessa parola: orizzonte temporale . Più che una parola, un tema.
Si fanno più polizze vita dicono i dati? Si, è vero, perché si ha più paura, ma anche perché si valuta che le polizze siano cassettini fermi da poter aprire senza sorprese. Non è raro il caso del cliente che ne venga a chiedere il riscatto lamentandosi delle valorizzazione e dimenticandosi che il senso di una polizza vita è il tempo della vita, appunto.
Quindi? Quindi al fondo c’è l’incapacità di stare in un orizzonte. Il cliente appassionato della liquidità se guardiamo bene è quello che le banche non hanno mai educato a comprendere che, stando in un orizzonte temporale corretto, ogni investimento ha un ritorno e crea valore . Sono quei clienti che non ci si è prodigati a seguire nel dovuto modo, e ora è difficile correggerli con ricatti d’occorrenza.
Quello che non fa l’educazione non lo può fare la punizione, diceva mia nonna e non sbagliava.
E lo stesso si vede quando con il cliente investitore, che pure prenderebbe decisioni dettate dall’assenza di orizzonte temporale, da far ricordare all’occorrenza, viene portato faticosamente, quasi costretto a rinunciare a quelle azioni di impulso che non farebbero che peggiorare la sua errata opinione sul rischio, pensando che coincida con perdita quando invece è innanzitutto opportunità.
Alla fine bisognerebbe parlare di più ai nostri clienti, da subito, di quello che fanno gli imprenditori, quelli doc, quelli che pensano che l’azienda debba sempre creare valore, il vero fair value, nel vero senso di generare altro dalla partenza, nel tempo che questo richiede.
Potrebbe essere illuminante questa allusione anche per il sempre uguale a se stesso depositante sul conto corrente? Forse sì, a patto che il valore generantesi sia corretto, congruo, privo di distorsioni, non fuorviante. E allora, educare il cliente a guardare di più i fondamentali, alla luce dei quali scegliere il giusto investimento, non potrà che essere la vera terapia, forse più capace della punizione imposta.
Alla prossima!