C’era una volta, in un paese molto lontano, una povera fanciulla che sognava di incontrare il suo principe… e diventare principessa.
Diciamocelo. Forse è passato il nostro tempo di raccontare questo genere di storie (mi riferisco a quanti fanno il mio lavoro e magari non hanno più questo genere di occasioni con figli piccoli). Ma è il caso di parlare ugualmente di storie diverse, proprio nella veste di chi esercita la fantastica professione del consulente finanziario.
È questo il più che suggerimento offerto da uno dei più interessanti testi che ho letto quest’estate: Costruire uno Story Brand di Donald Miller.
L’assunto di partenza fondamentale è una affermazione caustica, essenziale: il cervello umano, non importa da quale parte del mondo arrivi, è attratto dalla chiarezza e si allontana dalla confusione (pag. 15). Fatto inesorabile che sarebbe all’origine tanto di fallimenti quanto di grandi successi di marchi da miliardi di dollari, al pari di imprese a conduzione familiare.
Cosa c’entra con il nostro lavoro di consulenti finanziari e perché è centrale la “storia”? Vediamo.
Come parla per lo più la consulenza finanziaria di sé? Ovvero, come si mostrano i consulenti finanziari e l’industria della consulenza finanziaria al mercato? Qui c’è una evidenza schiacciante. Normalmente, raccontando di incrementi di portafogli, traguardi di raccolta, aumento di asset management. Tutto giusto. Peccato che, prendendo un primo interessante spunto da questo testo prezioso (pag. 18), così facendo «quando parliamo pubblicamente della storia della nostra azienda o dei successi interni, ci stiamo ponendo come le sedie e non come le uscite».
L’autore è illuminante con quest’immagine che dipinge l’oggetto di attenzione che da subito catalizzerebbe chiunque entrasse in un gigantesco salone e dovesse permanervi per un certo tempo: non si tratterebbe infatti delle sedie che dovessero esservi posizionate, quanto piuttosto delle uscite di emergenza, perché il cervello umano si focalizza su ciò che più interessa, mirando sempre alla sopravvivenza come obiettivo principale. Una nostra sponsorizzazione, per quanto eccellente, di risultati raggiunti non desterebbe dunque l’attenzione prioritaria del cliente.
Chiarezza, allontanamento dalla confusione, orientamento alla sopravvivenza e alla prosperità, aggiunge l’autore, ma soprattutto semplicità, ovvero semplificazione. Ci stiamo avvicinando al modello di Storia del Brand, ma manca un aspetto, e anche qui possiamo forse ritrovarci nei nostri discorsi in consulenza.
Scrive l’autore: «Immaginate che ogni volta che parliamo dei nostri prodotti a potenziali clienti, essi debbano iniziare a correre su un tapis-roulant. Per quanto tempo pensate che continueranno a prestare attenzione? Non molto… I potenziali acquirenti bruciano calorie per elaborare le informazioni… E se non diciamo qualcosa (e non lo facciamo velocemente) per sopravvivere e prosperare finiranno per ignorarci».
Non so voi, ma io ho riconosciuto quanto sia facile e istintivo cadere in questa trappola dell’auto-racconto, dell’auto-ascolto nella consulenza, al punto che il cliente davvero non riesce più a starci o, per citare l’iconica immagine dell’autore, a correrci dietro….
La storia sta prendendo forma e Miller, fatte le premesse e focalizzati i due errori da evitare, entra appieno nel cosa si debba veramente fare, per catturare l’attenzione del cliente.
Qui davvero mi ha molto provocata. Non so voi. Se è vero che dobbiamo essere attenti a comunicare con una struttura semplice che allontani la confusione e non faccia bruciare troppe calorie al cervello dei nostri clienti, che come quello di tutti cerca di sopravvivere e di prosperare, è vero anche che qualcosa dobbiamo dire, qualcosa dobbiamo… narrare. Ecco il punto. Ovvero il tema centrale, sviluppato nei sette punti del modello dello Story Brand di Miller.
Ogni brand che voglia avere successo deve narrare una storia che dica una posta in gioco e soprattutto che faccia capire al cliente dove lo voglia portare.
Perché «tutti vogliono essere portati da qualche parte. Se non dite alle persone dove le porterete, sceglieranno un altro marchio» (pag. 50). E qui dovrebbe venirci in mente subito un riferimento schiacciante nel mondo della consulenza finanziaria.
Non è forse questo il motivo per cui la gran parte dei clienti si fa prendere dagli inviti (chiari!) promettenti e dalle promesse di profitti (che dicono quindi dove porteranno, se non il cliente, il suo portafoglio!) ed esita invece a seguire la consulenza finanziaria che di promesse non può farne e di profitti può solo ambire a costruirne nel tempo?
Eppure, questo non può voler dire per noi consulenti che non si debba essere più chiari nel comunicare al cliente quale sia la posta in gioco, dove li si voglia portare….
Entrando nella storia… si apre il vero scenario. Occorre innanzitutto sapere che il protagonista della storia del nostro brand è il cliente e non siamo noi (fatto banale ma meglio dirselo ogni tanto) e il suo desiderio base va messo al centro della storia che il nostro marchio racconta. Cosa vuole il cliente.
Più saremo chiari nel dirlo più lui ci seguirà. Anche qui niente di scontato e… forse una miopia da parte del cliente che ci troviamo a dover subito correggere. Perché qual è il desiderio base del nostro cliente? Guadagnare.
Ma a esso si accompagnano altri due desideri inscindibili: stare tranquillo e non rischiare. E qui proprio non ci siamo. Nel senso che tanto dobbiamo essere semplici e chiari nel comunicare al cliente dove lo stiamo portando, e quale sia la posta in gioco (alla maniera di Miller), quanto dobbiamo essere severi nel fargli capire che c’è un elemento di educazione finanziaria cui lui deve abituarsi.
Che per guadagnare occorre rischiare e che rischiando è possibile che non si stia sempre tranquilli…
Andiamo oltre, perché c’è un altro punto davvero illuminante.
«Più parliamo delle difficoltà che vivono i nostri clienti più essi saranno interessati al nostro marchio» (pag. 72). Qui l’autore si sofferma sull’errore di parlare solo di problemi esterni che commettono molti marchi. E riporta il caso Apple come esempio contrarian, di successo.
Cosa ha fatto Apple? Ha risolto il vero problema interno che consisteva nella difficoltà e distanza che le persone comuni provavano per la tecnologia, e ha creato una sintonia e familiarità tra le persone e questa stessa tecnologia.
Al fondo il tema vero: «Supponendo che i nostri clienti vogliano solo risolvere problemi esterni, falliamo non coinvolgendoli nella storia più profonda che stanno davvero vivendo. La verità è che le preoccupazioni esterne che risolviamo, sono causa della frustrazione nelle loro vite e, come in una storia, è questa insoddisfazione che li motiva a chiamarvi» (pagg. 77-78).
Clienti che vivono vere e proprie ansie per dettagli come bancomat, password, o per esigenze come cambiare la casa, se li sappiamo vivere come esperienze di vera condivisione e “presa in carico a livello personale”, sono all’origine di esperienze esplosive di bisogni ulteriori da parte dei clienti stessi; bisogni che si rivelano essere tutto meno che esterni, piuttosto rivelativi di vere e proprie necessità profonde.
E non penso di parlare solo di me quando mi vengono in mente vicende di clienti che hanno cominciato a seguirmi da dettagli esteriori, che sembravano essere i loro “desideri base”, poi manifestatisi come origine di un vero confronto e dell’emergere di bisogni di consulenza a 360 gradi…
Finisco (ma di spunti ce ne sono davvero tanti!) con quello che ho identificato essere il punto critico.
Per tutti i brand, ma soprattutto per noi consulenti finanziari. Possiamo essere i più preparati, aver colto il problema interno del cliente e magari la sua evoluzione filosofica (perché Miller dice che ci sono tre tipi di problemi che il cliente deve risolvere: interni, esterni e filosofici. Andateli a leggere, interessanti…), essere stati intercettati come la guida autorevole e affidabile, e il cliente può aver condiviso il piano (sì, Miller parla proprio della proposta di un piano per risolvere il problema del cliente, come non essere d’accordo!), eppure il cliente può non accettare, può non seguirci (pag. 101).
Be’ qui sfondiamo la cosiddetta porta aperta, e ci ritroviamo tutti davanti a clienti che non sono passati dal dire «ha ragione, il piano è corretto» alla fatidica «va bene la seguo, iniziamo!».
Qui l’immagine di Miller è forte: «Quando un acquirente sta decidendo se comprare qualcosa, dovremmo immaginarcelo in piedi sull’orlo di un fiume che scorre». La domanda che si fa il cliente è cosa succederà se accetterà la nostra proposta, per non arrivare alla sempre presente obiezione: «E se non funzionasse?».
E qui magistrale e iconico il come possa avvenire il passaggio, l’attraversamento del fiume, mettendo «grosse pietre in quel fiume. Una volta identificate le pietre su cui i consumatori (pensiamo ai nostri clienti come consumatori della nostra consulenza e non sbagliamo) potranno passare per attraversare il fiume, elimineremo molti rischi, aumentando il livello di comfort… È come se dicessimo: per prima cosa fate un passo qui. Guardate, è facile. Poi un passo qui, poi qui, e poi sarete dall’altra parte e il vostro problema sarà risolto».
Non è forse questa la logica del piano finanziario, che poi diventa un piano personale, che poi forse è in grado di trasformare alla fine anche l’identità del cliente, portandolo sì da una parte, ma da una parte che lui stesso, all’inizio della storia, non si sarebbe mai immaginato?
Che bello leggere, spero lo sia anche per voi!
Alla prossima!
Miller D., Costruire uno Storybrand – Disegna il tuo messaggio in modo che i clienti siano coinvolti
(Milano, 2019 Unicomunicazione editore)